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domenica 31 maggio 2015

"Fury": il carro armato metafora dell'animo umano

di Emanuela Andreocci

Difficile che un film che tratta gli orrori della guerra non faccia immediatamente breccia nel cuore degli spettatori, ma non scontato. Fury di David Ayer, nei nostri cinema dal 2 giugno, ci riesce perfettamente, recuperando i cliché più classici del genere ma riadattandoli secondo una nuova estetica, iniziata coraggiosamente da Spielberg con Salvate il Soldato Ryan, con l'obiettivo di raccontare non la guerra vinta dagli Americani, ma quella persa da ogni essere umano. Perchè, a differenza di quanto canta De Gregori, la guerra non è bella anche se fa male, e tutti ne escono distrutti, in un modo o nell'altro.  

Manca poco alla fine del secondo conflitto mondiale e gli Alleati stanno conquistando gli ultimi punti strategici, ma questo non garantisce di portare a casa solo successi e, soprattutto, di riportare a casa tutti gli uomini. Brad Pitt è Don Callier (conosciuto da tutti come Wardaddy), comandante del carro armato che dà il titolo alla pellicola e degli uomini che lo "abitano": Boyd Swan (Shia LaBeouf), Trini Garcia (Micael Peña), Grady Travis (Jon Bernthal) ed infine l'ultimo arrivato, il giovane ed ingenuo Norman Ellison (Logan Lerman), formato come dattilografo ma mandato al fronte per sostituire un soldato deceduto.
Non c’è tempo per la teoria, non c’è tempo da dedicare a moralità e sentimenti: la vita dei compagni dipende dalla morte dei nazisti, chi uccide resta in vita. Questo il messaggio che comandante e compagni impartiscono fin da subito a Norman, questa la realtà a cui il ragazzo sembra non potersi abituare, ma non ha scelta. Fin da subito deve fare i conti con la morte e con la propria coscienza, costretto, “violentato” da Don, che deve pensare come prima cosa alla sopravvivenza, sua e degli uomini che gli sono stati affidati.

La caratterizzazione dei personaggi è prevedibile ma riuscita, ognuno ha la sua peculiarità, fuori del carro armato possono non sopportarsi o minacciarsi, ma dentro sono una cosa sola, una macchina da guerra ben oliata in cui ognuno sta al suo posto e sa esattamente cosa fare. Perché in fondo, quello, è il lavoro più bello del mondo. Anche se è difficile andare avanti quando tutto sembra perduto, difficile continuare imperterriti come fa il carro armato che continua incessantemente a travolgere fango e cadaveri col suo cingolato, è l’unica cosa da fare.

Fury non è solo il nome del mezzo (che col suo cannone domina frequentemente la scena rivelandosi un ulteriore protagonista della pellicola), ma è il sentimento che aleggia costante, insito ormai nell’animo dei soldati, e che viene mostrato senza esclusione di colpi, senza  addolcire la pillola, senza allontanare la macchina da presa dalla concretezza di tali orrori, che riecheggiano anche nella testa di Don come una marcia di morte in crescendo. 

L’interpretazione di Pitt è egregia, incarna perfettamente l’uomo valoroso e sicuro dal passato tormentato, l’uomo che ne ha passate troppe per avere dubbi o incertezze e che, nonostante tutto, crede nella possibilità di un lieto fine e forse, inaspettatamente, in Dio.
Anche gli altri protagonisti risaltano nei loro ruoli. Lerman, in particolare, grazie anche ai suoi occhioni azzurri e al suo viso da bravo ragazzo, restituisce allo spettatore il disgusto e il terrore con cui guarda il mondo che lo circonda, un mondo perennemente grigio e fumoso che si tinge troppo spesso di rosso sangue.

In un mondo del genere c'è ancora possibilità di redenzione? 

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