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martedì 30 dicembre 2014

"The Imitation Game": il genio e i segreti di Alan Turing

di Emanuela Andreocci
 
A volte sono le persone che nessuno immagina possano fare certe cose a fare cose che nessuno può immaginare.

Inizio scoppiettante per questo 2015: dopo aver presentato Big Eyes e American Sniper, è il turno di The Imitation Game del regista norvegese Morten Tyldum. Protagonista della pellicola è un eccellente Benedict Cumberbatch nei panni di Alan Turing, l'inventore dell'omonima macchina che durante la seconda guerra mondiale si è resa fondamentale per decifrare Enigma, l'apparentemente inviolabile sistema di codici utilizzato dalle forze tedesche, rendendo il suo inventore un eroe di guerra.

Alan Turing, fin da piccolo, si dimostra essere un ragazzino solitario e dagli interessi che è meglio mantenere nascosti: solo grazie all'arte della crittografia, svelata dal suo unico amico Christopher, riuscirà a crearsi un universo a lui confortevole e a portare avanti una relazione altrimenti proibita. . 

Il Turing del 1939 è rimasto misantropo e crescendo, conscio del suo valore, è diventato arrogante e fastidioso, in un modo che solo il pubblico trova fin da subito adorabile, come un moderno ma ben più importante Sheldon Cooper. 
Con caparbia ottiene dal comandante Alastair Denniston (Charles Dance) e da Winston Churchill in persona la possibilità di lavorare al progetto di decifrazione di Enigma con una squadra composta - non per lui! - da eccellenze: Hugh Alexander (Matthew Goode), John Cairncross (Allen Leech), Peter Hilton (Matthew Beard), Furman, Richards - tutti elementi con i quali Turing sarà ben infelice di lavorare - e l'unica sua scelta Joan Clarke (Keira Knightley), vincitrice di una gara di cruciverba cronometrata.

La pellicola - un biopic misto a thriller misto a dramma - alterna passato e presente: la pressione militare che viene affettuata sulla squadra e su una macchina che non funzionando lascia morire centinaia di uomini, la pressione fatta dalla polizia che, a seguito di una segnalazione di furto con scasso, indaga per capire cosa è successo a casa di Turing. Il detective Robert Nock (Rory Kinnear) si appassiona al caso del professore e cerca di scavare nel suo incredibile passato...

Le interpretazioni, in primis di Cumberbatch e della Knightley, sono magistrali e riflettono pienamente il disagio dell'epoca, vissuto da entrambi i personaggi in maniera diversa e per motivi diametralmente opposti che, però, li rendono così vicini e simili, spiriti affini. Turing non è certamente un uomo "normale", ma il mondo è un posto infinitamente migliore proprio perchè lui è così. 

La tensione cresce insieme al movimento dei rotori e le preoccupazioni non svaniscono nel momento in cui Christopher - questo il nome scelto da Alan per la sua invenzione - comincia a funzionare, ma anzi aumentano, così come i nemici: non ci sono solo i tedeschi, ma i propri segreti che prestano il fianco a vergognosi ricatti.

Un film che rende omaggio al genio di un uomo, ma che allo stesso tempo punta il dito sul trattamento a lui - e a tanti altri nella sua stessa condizione - riservato.

Nei nostri cinema dal 1 gennaio. Da non perdere.

lunedì 29 dicembre 2014

"Big Eyes": Tim Burton apre i suoi occhioni al bello e ai colori.

di Emanuela Andreocci

Vuoi per i colori, vuoi per l'aggettivo contenuto nel titolo, vuoi per il fatto che non ci sarebbe dispiaciuto per niente trovare un fratellino a Big Fish, ma prima di accostarci alla visione di Big Eyes di Tim Burton, nelle nostre sale dal 1 gennaio, in qualche modo speravamo di poterlo paragonare al film del 2003. E il desiderio, in parte, si è avverato.
Con questo non intendiamo assolutamente criticare le ambientazioni gotiche e i protagonisti outsider che hanno caratterizzato e fatto la fortuna della maggior parte della filmografia burtoniana - tutt'altro! - ma siamo felici di annunciare che la nuova pellicola del visionario regista piacerà anche ai suoi pochi detrattori, proprio come già successo per lo straordinario film sopra citato.

Big Eyes, forse, è addirittura meno burtoniano di Big Fish: dopo una prima panoramica su una strada che è un tipico omaggio a Burbank e agli scenari di molti suoi film, veniamo catapultati in quello che sembra essere l'ovattato mondo color pastello dei pittori di strada, con tanti sogni nel cassetto ma pochi soldi nel portafoglio. 
 
La vera, incredibile storia è quella di Margaret Keane (Amy Adams), la pittrice dei famosi dipinti con soggetti bambini dai grandi occhi - e per questo soprannominati "occhioni" - che è rimasta a lungo all'ombra del successo del secondo marito Walter Keane (Christoph Waltz), artista di facciata, impostore nell'animo. Vittima anche di una mentalità retrograda, per troppo tempo la donna ha permesso a quello che pensava essere l'uomo della sua vita di prendersi il merito del suo talento, arrivando a dover dipingere di nascosto e anche a mentire a sua figlia.

Tim Burton, si sa, ha una passione sviscerata per le storie dal sapore fantastico, e questa si intona perfettamente alle sue corde: chi, meglio di lui, avrebbe potuto portare sullo schermo un sogno che si trasforma in incubo? 

Per quanto riguarda i protagonisti, non si poteva pensare ad una scelta migliore: la Adams - mai lodata pienamente da chi scrive - è assolutamente credibile nei panni della donna che cerca l'emancipazione e che fugge da realtà che le stanno troppo strette, Waltz è l'adorabile mascalzone con picchi di cattiveria gratuita - dettata da un ego troppo grande da contenere - a cui Burton regala un'ipotetica standing ovation del pubblico per il suo "assolo" durante la scena del processo. 

Anche le ambientazioni e i personaggi di contorno sono estremamente precisi e caratterizzati alla perfezione, grazie anche al sapiente aiuto dei due fidi collaboratori di Burton: lo scenografo Rick Heinrichs e la costumista Colleen Atwood. 
Lo "hungry i" di Enrico Banducci (Jon Polito) era uno dei locali più trendy della West Coast ed è lì che il giornalista Dick Nolan (Danny Huston), assistendo ad una lite tra il pittore ed il proprietario, propone a Keane un articolo che darà fama e risalto ad entrambi; Dee-Ann (Krysten Ritter) è l'amica anticonformista di Margaret ed allo stesso tempo il suo poco ascoltato Grillo Parlante; il gallerista Ruben (Jason Schwartzman) è colui che, dopo aver rifiutato di comprare i loro quadri, assiste alla loro incredibile ascesa rodendosi il fegato per non esser salito sul carro dei vincitori quando ne aveva avuto la possibilità.
 
E poi c'è la forza di tutti gli occhioni mostrati, numerosi e magnetici: mentre essi fissano lo spettatore, questi non può che ricambiare lo sguardo con la stessa intensità.

"American Sniper": Clint Eastwood, come Chris Kyle, non sbaglia un colpo.

di Emanuela Andreocci

Clint Eastwood, Bradley Cooper e Sienna Miller portano sul grande schermo la toccante e vera storia di Chris Kyle, il cecchino degli U.S. Navy SEAL divenuto leggenda per la sua mira infallibile che gli ha permesso di salvare innumerevoli vite. American Sniper, tratto dall'omonima autobiografia scritta da Kyle in persona insieme a Scott McEwan, racconta il coraggio, l'orgoglio e la dedizione di un giovane ragazzo di sani principi (Dio, Patria, Famiglia) e dalla chiara visione di come va il mondo: esistono le pecore, i predatori e i cani da pastore, che proteggono chi amano. Quest'ultima è sicuramente la sua strada: il fu cowboy texano decide di mettere la sua vita e le sue doti al servizio degli Stati Uniti d'America, fiaccati prima da vari attentati in alcune sede diplomatiche e poi colpiti al cuore con l'attacco alle Torri Gemelle. Dopo un durissimo allenamento avrà l'onore di entrare nelle Forze per Operazioni Speciali della Marina in missione in Iraq e gli sarà affidato il compito che porterà avanti per tutta la vita: proteggere i suoi commilitoni - che diverranno suoi fratelli - e guardare le spalle ai Marines di terra. In poche parole: uccidere il nemico prima che avvenga il contrario.

Chris Kyle, però, non è solo la Leggenda, ma è anche un marito e padre di famiglia: come si può coniugare una vita privata alternandola con quattro missioni tra orrori e barbarie? Si può essere un cecchino freddo e razionale sul campo di battaglia e poi tornare ad abbracciare i propri cari con lo stesso cuore con cui si è partiti?

Bradley Cooper, a detta di tutti coloro che hanno avuto modo di conoscere Kyle, si è dedicato totalmente al suo compito e, onorato di poter interpretare un personaggio così positivo e complesso, ha cercato di ricordarlo in tutto: voce, movimenti, respiro, fisicità. 

Clint Eastwood si dedica al nuovo selvaggio western del medio oriente e, nell'attimo che precede uno sparo, riesce a farci conoscere il protagonista, ripercorre il suo passato e lo colloca nel preciso posto e momento in cui deve trovarsi, dando vita ad un ritratto emozionante e commovente. Con abilità racconta le due facce della stessa medaglia: la guerra, gli allenamenti, le armi, la preparazione al colpo sono trasportati sullo schermo con dovizia di particolari ed estremo realismo, ma allo stesso tempo scandaglia l'animo umano di Kyle, soldato e uomo, sia durante la sua permanenza in Iraq, sia e, soprattutto, a casa, quando è tormentato dai rumori, dagli spostamenti impercettibili, dalle notizie in televisione. La sua unica possibilità di ritrovare la via del ritorno è ascoltare la voce della moglie che, grazie anche ai telefoni satellitari, è l'unica costante positiva in uno scenario di odio e violenza in cui viene addirittura messa una taglia sulla sua vita. Il cecchino diviene quindi bersaglio di un suo "collega" siriano, ex olimpionico e alleato con gli insorti, che lo segue in silenzio, proprio come un sordo tormento interiore.

American sniper rende omaggio a tutti i militari che hanno combattuto per una giusta causa, a quelli che sono morti inseguendo un ideale e a coloro che hanno fatto ritorno a casa ma che solo con difficoltà e impegno sono (forse) tornati alla serenità di una vita normale. 
Una pellicola da vedere tutta d'un fiato, senza far rumore.

Dal 1 gennaio al cinema.









sabato 27 dicembre 2014

"Gone Girl - L'amore bugiardo": chi sono i coniugi Dunne?

di Emanuela Andreocci

Avevamo grandi, grandissime aspettative per Gone Girl, il nuovo film di David Fincher tratto dall'omonimo bestseller di Gillian Flynn in arrivo nelle nostre sale il 18 dicembre, e ci dispiace veramente troppo non lodare come speravamo l'ultima opera del regista di Seven, ma dobbiamo pagare lo scotto e fare i conti con quanto visto, oltre che con quanto letto al riguardo. 
Intendiamoci: il film di Fincher è tecnicamente perfetto, le linee narrative, anzi, la linea narrativa, è portata avanti con estrema intelligenza e originalità, e la storia intriga fin da subito: cosa sarà successo il 5 luglio, QUEL mattino? 

Rosamund Pike è perfetta nel ruolo di Amy, moglie adorabile e incompresa ma prima ancora mitica protagonista di racconti per bambini nata dalla penna dei suoi genitori; Ben Affleck, invece, veste con mestizia i panni del poco raccomandabile marito Nick Dunne, fedifrago e violento. Inizialmente tra i due il rapporto è idilliaco, poi, però, con il trasferimento nel Missouri, cominciano i problemi finanziari e di rapporto, tutti rigorosamente annotati nel diario della giovane e tormentata donna che, improvvisamente, sparisce. La scena del crimine parla chiaro: omicidio. Ma il corpo non si trova. Si trovano, invece, tanti indizi che, come in una macabra e perversa caccia al tesoro, si incastrano perfettamente tra di loro e, a loro volta, incastrano Nick, che continua a professarsi innocente. I giorni passano ed il caso guadagna sempre più l'attenzione di popolazione e media: Nick è il marito ingrato che ha brutalmente assassinato la moglie il giorno del loro quinto anniversario di matrimonio e che sorride alle telecamere, Amy è la vittima sacrificale pura e innocente, che la morte ha reso perfetta e irraggiungibile proprio come il suo alterego dei romanzi.

Quello che del film cattura fin da subito è l'indecifrabilità dei caratteri, l'imperscrutabilità della psiche dei due protagonisti: quel che vediamo è realmente accaduto? Il caso sembra chiaro, ma per forza di cose, lo spettatore sa che non può essere tutto come sembra. Stabilito che c'è altro oltre le apparenze, la difficoltà sta dunque nel capire esattamente cosa. Fincher, in questo, è assolutamente abilissimo: scandisce con estrema sapienza tempi, avvenimenti e punti di vista.

Perchè, quindi, non gridare al capolavoro? Perchè - ed ecco che subentra la soggettività di chi scrive e, probabilmente, anche i suoi limiti - la conclusione non è all'altezza del film, narrativamente parlando: messa in scena nell'unico modo possibile, ma non esaustiva. Senza spoilerare, ovviamente, possiamo dire con grande onestà che il finale svilisce tutto il percorso e la fatica fatti per arrivarci. Il problema e il relativo fastidio provato non sono di ordine morale, come molti potrebbero pensare, ma di credibilità. Un finale può compromettere tutto un film? A nostro avviso, purtroppo, sì.  


domenica 14 dicembre 2014

"Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate": il grande commiato

di Emanuela Andreocci


Difficile, difficilissimo cercare di rendere a parole la potenza visiva e l'emozione tangibile che Jackson regala allo spettatore con Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate, il capitolo finale della trilogia tratta dall'omonimo romanzo di J. R. R. Tolkien nei nostri cinema dal 17 dicembre. 

Come Il Ritorno del Re ha rappresentato il punto più alto dell'amata trilogia de Il signore degli Anelli (conferendo al filmmaker l'Oscar nel 2004 per il miglior film, miglior regista e miglior sceneggiatura non originale, per un totale di 11 statuette conquistate dalla pellicola) e ha portato sul grande schermo una battaglia di dimensioni epiche che resterà nella storia della cinematografia mondiale, con la conclusione de Lo Hobbit succede esattamente lo stesso. Peccato però - meglio, in realtà! - che i tempi siano cambiati: sono passati ben 10 anni e a livello tecnico si sentono tutti. 
Quello che prima si poteva solo vedere adesso si percepisce, si sfiora, è a portata di mano: lo spettatore è costretto a fuggire dall'ultimo attacco di Smaug e si ritrova schierato nell'esercito di elfi tra lance e corazze scintillanti d'oro, affronta creature mostruose che ormai conosce e diventa padrone di un tesoro smisurato.

L'inizio roboante riporta subito la mente al finale de La desolazione di Smaug: il drago (con la voce di Benedict Cumberbatch nella versione originale) è libero e pronto ad attaccare con tutta la sua potenza Pontelagolungo, la cui unica speranza è Bard l'Arciere (Luke Evans). 
Nel frattempo Gandalf (Ian McKellen) rischia la vita, vittima di una trappola di Sauron, e Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage) viene contagiato dalla malattia del drago con cui aveva dovuto fare i conti già suo nonno: l'oro e l'Arkengemma valgono più dell'onore e delle amicizie? Riuscirà il mastro scassinatore Bilbo Baggins (Martin Freeman) a far rinsavire il suo amico? Il tesoro e la posizione privilegiata della montagna fanno gola a tutti: sia uomini che elfi reclamano la propria parte, ma quello che i "buoni", impegnati nelle loro trattative, non sanno, è che Sauron e i suoi eserciti di Orchi e Mannari sono pronti ad attaccare... Tutto il resto è battaglia, azione, scenari da capogiro e combattimenti mozzafiato.

Nel cast corale di altissimo livello di un film che ha tutto il sapore di un addio, ritroviamo attori i cui personaggi sono diventati ormai iconici, leggendari: oltre ai protagonisti già citati, ritroviamo anche Christopher Lee come Saruman, Evangeline Lilly nei panni di Tauriel, Lee Pace in quelli di Thranduil, re degli Elfi, Orlando Bloom nel ruolo ormai immortale di Legolas e Cate Blanchett in quello dell'eterea e potente Galadriel.

Impossibile non emozionarsi davanti ad un'opera che colpisce a trecentosessanta gradi, un'opera sinestetica che scuote visceralmente, un'opera la cui potenza è data dalla storia (e dalla sceneggiatura), ma è resa memorabile da una messa in scena perfetta che merita, ed esige, la visione in 3D. 

L'ultimo viaggio nella terra di mezzo sarà indimenticabile.


  

sabato 13 dicembre 2014

"Big Hero 6": il Natale rassicurante, coccoloso e ipertecnologico della Disney

di Emanuela Andreocci

Il Natale di casa Disney è rassicurante e coccoloso, proprio come Baymax, compagno di avventure di Hiro, il geniale quattordicenne prodigio della robotica protagonista della nuova pellicola. 
Attenzione, però! Dimentichiamoci principi in calzamaglia e donzelle da salvare, regni magici e incantesimi; "Big Hero 6", nei nostri cinema dal 18 dicembre, è ispirato all'omonimo fumetto Marvel e rende uno strabiliante omaggio al mondo di Stan Lee e ai suoi protagonisti pur mantenendo la dolcezza e i sentimenti tipicamente disneyani.

Tadashi, più grande di Hiro, con il sempre efficace espediente della psicologia inversa, riesce a far cambiare idea al suo fratellino: apparentemente interessato solo ai combattimenti clandestini tra robot e non allo studio, ha un'illuminazione non appena si accorge di quanto accade al San Fransokyo Tech, conosce meglio i colleghi/amici di Tadashi ed il professore che ha ideato i meccanismi che permettono ai suoi piccoli robot di vincere sempre. 
Infine incontra Baymax, l'operatore sanitario personale creato da Tadashi: un robot gonfiabile dall'aspetto di un gigantesco marshmallow il cui unico compito è confortare e curare le persone nei momenti di dolore. Lo spettatore lo trova adorabile da subito, lo trova simpatico ed estremamente espressivo nonostante sia una montagna bianca con solo due occhietti neri e neanche una bocca. Merito, questo, della voce affidabile di Flavio Insinna per la versione italiana, ma soprattutto del grande lavoro, prima di ricerca e poi di realizzazione, compiuto dal fantastico reparto d'animazione con a capo Zach Parrish che ha dichiarato: “Abbiamo studiato veri robot, robot cinematografici, ma anche cose carine come i bambini con il pannolino e i koala. Alla fine abbiamo optato per i cuccioli di pinguino, perché hanno delle proporzioni simili – torso lungo e gambe corte – e non usano le ali quando camminano. I robot muovono solo ciò che serve. I pinguini muovono anche la testa in un modo curioso, spingendo il collo in avanti, e questo gli dà un sacco di personalità”.

Ma - c'è sempre un ma - non tutto va come previsto, si presenta un incidente che sconvolge completamente la vita di Hiro e, di conseguenza, anche quella di Baymax. Per far luce su un losco mistero non si può più essere rassicuranti e coccolosi, ma ben addestrati e pronti al più duro dei combattimenti: basta qualche upgrade ed ecco che si forma la squadra dei Big Hero 6 a cui prendono parte, ovviamente, anche Fred, Go Go Tomago, Honey Lemon e Wasabi, gli amici nerd di Tadashi. 
Arriva, quindi, il momento preciso in cui si concretizza in maniera mirabile il connubio tra il mondo Disney e l'universo Marvel.
Il morbido vinile di Baymax viene protetto e contenuto - a fatica! - da una scintillante e sofisticata armatura, si succedono inseguimenti e combattimenti via terra e aria come nel più roboante film d'azione, con una città da sfondo che già di per sè è tutta un programma: San Fransokyo, geniale già nel nome, è l'emblema di una fusione sia concettuale che visiva di altissimo spessore, resa con una tale dovizia di particolari che faranno credere allo spettatore di esserci realmente stato. Peccato solo non poter uscire dalla sala con Baymax! 

Una storia ipertecnologica di amicizia e buoni sentimenti che farà divertire ed emozionare grandi e piccini.

mercoledì 3 dicembre 2014

"Magic in the Moonlight":il dolce inganno di Woody Allen

di Emanuela Andreocci

Quale strumento migliore del caro e vecchio cinematografo per raccontare l'affascinante mondo dell'illusione, con tutti i suoi pregi e difetti e i relativi sostenitori e detrattori? E' meglio cedere al fascino dell'illusione, credere che il treno stia realmente entrando nella stazione de La Ciotat, o rimanere impassibili difronte a quello che si sa essere solo un mero spettacolo, frutto dell'estro e della scaltrezza di un geniale impostore? Magic in the Moonlight, il nuovo film di Woody Allen in arrivo nelle nostre sale domani 4 dicembre, racconta la storia del grande prestigiatore Wei Ling Soo (pseudonimo e maschera di Stanley Crawford - Colin Firth) che viene chiamato dal suo amico e collega Howard Burkan (Simon McBurney) a passare qualche giorno in Costa Azzurra in compagnia della famiglia Catledge per smascherare Sophie Baker, un'apparentemente inattaccabile medium interpretata da Emma Stone. 

Se lo spettatore più sensibile non può non rimanere affascinato dall'aspetto fresco e ingenuo della ragazza, lo stesso non vale per il protagonista, unicamente attento a coglierla in fallo fin dal primo incontro. Ma se i movimenti e gli atteggiamenti della donna sono quelli di una veggente da quattro soldi, le sue parole colpiscono sempre il bersaglio. Possibile che sia reale? Può esistere veramente qualcosa che superi l'intelligenza umana e che non sia spiegabile con la scienza? Come prevede il più classico dei cliché, ovviamente, il rapporto tra i due inizia a consolidarsi e mentre la loro conoscenza si rafforza, le convinzioni del rigido Crawford cominciano a vacillare. 

Gran parte della pellicola si basa proprio sull'amabile (o detestabile, questioni di punti di vista!) protagonista, "un genio col fascino di un'epidemia di tifo" assolutamente agli antipodi rispetto a Brice (Hamish Linklater), il dolce e benestante spasimante di Sophie, tutto occhi a cuoricino e serenate. Asociale, logorroico, inopportuno: Colin Firth interpreta l'ospite che nessuno vorrebbe mai ritrovarsi in casa. Allo stesso tempo, però, è intelligente, a volte addirittura divertente, sicuramente molto, ma veramente molto, charmant. Insomma, l'uomo che ogni donna desidererebbe al suo fianco.

Al film si può, forse,  rimproverare di essere leggermente lento in apertura: dopo lo stupore iniziale dato dallo spettacolo di Wei Ling Soo, l'arrivo in Riviera e i primi approcci con la mistificatrice fanno bramare subito dell'altro, lo spettatore vuole passare all'azione. Ma basta veramente un attimo per innamorarsi del protagonista, dell'ambiente e di un tempo magico (il Sud della Francia negli anni '20), dei fedeli costumi e della squisita zia Vanessa (Eileen Atkins) con cui il protagonista ha un rapporto adorabile. E poi ci sono i dialoghi, costruiti con mirabile sapienza, puntali e precisi, con dei tempi comici perfetti e argute battute. E così compare anche il marchio del regista: scene molto lunghe e verbose, con fermi e movimenti di macchina.

Lo spettatore, affascinato, assiste alla proiezione con un sorriso costante impresso sul volto, si affeziona al protagonista e arriva a pregare con lui nell'unico momento serio che la pellicola si concede. E poi, ovviamente, torna a sorridere e a farsi incantare.