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mercoledì 29 ottobre 2014

"Una folle passione", perversione di un amore.

di Roberto Caravello

Susanne Bier, elevata agli altari degli Academy Award nel 2011 con In un mondo migliore, ci porta con sé nel cuore della Grande Depressione americana e ci lascia soli in un avamposto di taglialegna sperduto nelle Smoky Mountains , tra il Tennessee e il North Carolina.
Grazie al gusto straordinario di Morten Søborg, direttore della fotografia di molte opere della stessa regista ma anche di pellicole come l’allucinante Valhalla Rising, e a un uso della scenografia e dei costumi da vero e proprio colossal, Una folle passione può tranquillamente essere incluso tra i migliori film delle ultime stagioni cinematografiche.

Sul finire degli anni ’20 George Pemberton, piccolo magnate del legname, sposa la bellissima Serena, figlia di un altro magnate ormai defunto, dotata di una grande forza di volontà e un’intelligenza finissima e insieme mettono su il loro piccolo impero finanziario. La loro intensissima storia d’amore, che inizialmente non viene scalfita né dai forti problemi economici in cui versa l’azienda né dalla presenza di un socio d’affari, Buchanan, sospettoso e geloso, si incrinerà irrimediabilmente quando Serena per soccorrere al galoppo un uomo ferito, perderà il bambino che porta in grembo e la possibilità di averne degli altri. Da questo punto in poi tutto nella vita dei due degenera in una spirale di perversione e violenza inarrestabile che esplode definitivamente quando Serena scopre il passato oscuro del marito.

Il film dipinge un affresco molto realistico del male di cui l’uomo è capace.
Il male che viene raccontato è un male vero, sincero e terribile. La regista riesce a trarre da Jennifer Lawrence, Bradley Cooper e dagli altri interpreti una profondità psicologica naturale e ben tratteggiata, davvero umana. Non esiste un cattivo puro, il male assoluto. Come i dannati dell’inferno dantesco anche nelle montagne del North Carolina si pecca per perversione di un amore. È per amore che Serena decide di compiere le peggiori nefandezze, per amore di George e di se stessa. È per amore di Serena che George si lascia trascinare da questa novella Medea nella follia dell’omicidio.
La performance attoriale dei protagonisti corona il realismo di cui produzione e regia sono stati capaci. La coppia Lawrence-Cooper funziona meravigliosamente e grazie alle loro abilità camaleontiche ci fanno dimenticare della loro ultima apparizione insieme ne Il lato positivo, dove avevano fatto scintille (da Oscar per Jennifer), e ci rendono a viso aperto il “mondo interiore” dei loro personaggi.



La pellicola offre tantissimi spunti di riflessione sulla natura del male e dell’amore, della passione e del possesso, ma sono riflessioni da fare insieme alla fine della proiezione… Bisogna andare a vedere questo capolavoro!

Dal 30 ottobre nei cinema.

mercoledì 15 ottobre 2014

"La moglie del cuoco": l'arte di intrattenere

di Roberto Caravello

Il primo scopo di una narrazione è intrattenere un pubblico, sia esso un lettore, un ascoltatore o uno spettatore. Dai “racconti intorno al fuoco” alla Divina Commedia la cifra originaria di una narrazione è l’intrattenimento. Prima ancora che farti riflettere o insegnarti qualcosa, un buon racconto ti intrattiene (dal latino tenere intra, vale a dire “far sì che il pubblico rimanga dentro il teatro/cinema per tutto lo spettacolo”). Su questo intrattenere, però, conviene fermarsi a fare chiarezza: il semplice “raccontar bene una storia” non è un valore. Un'opera, infatti, per essere definita tale, non può limitarsi solo a raccontare: deve rimandare ad altro da se stessa, non deve essere autoreferenziale, altrimenti sarebbe solo un prodotto commerciale. Questa differenza fra opera d’arte (che non sia necessariamente un capolavoro!) e prodotto commerciale si può osservare molto bene nel mondo del cinema. 

Queste premesse sono utili per esprimere il dubbio che La moglie del cuoco di Anne Le Ny (Yvonne in Quasi amici e regista di alcuni film mai arrivati in Italia ma di gran successo in Francia) lascia alla fine della proiezione. La pellicola non è un capolavoro ma non si può propriamente definirla appena un prodotto commerciale.

La trama ha la classicissima struttura della commedia romantica con tanto di triangolo amoroso ed equivoci alla maniera di Plauto.
Marithé/Karin Viard, vincitrice di due premi César e ottima attrice, che di mestiere aiuta le persone a scoprire la propria vocazione lavorativa, conosce sul lavoro Carole/Emmanuelle Devos, anche lei doppio premio César e amatissima dai francesi, la quale vorrebbe trovare la sua vera attitudine lavorativa. Carole però non è una disoccupata ma anzi gestisce uno dei migliori ristoranti di Francia insieme al marito e chef Sam/Roschdy Zem, premio miglior interpretazione a Cannes nel 2006 per il suo ruolo in Indigènes di Rachid Bouchareb e noto al pubblico internazionale per film come London River e La fredda luce del giorno. Essere sposata ad un grande chef come Sam è frustrante per la frivola Carole, che si sente costantemente adombrata dallo charme del marito e per questo motivo da anni intrattiene delle relazioni extraconiugali con alcuni uomini. All’iniziale difficoltà di Marithé nel trovare una nuova sistemazione lavorativa a una donna così superficiale e candidamente snob (il sistema computerizzato propone inizialmente “falconiera”) si aggiunge anche l’infatuazione che comincerà a provare proprio per Sam, conosciuto casualmente il giorno stesso in cui incontra Carole. 
La storia, come accennato, è un succedersi di equivoci e situazioni esilaranti (si ride, o almeno sorride, per tutto il film), ma non assistiamo ad un vero e proprio sviluppo. Tutto ruota attorno a questo triangolo amoroso e la conclusione (tranquilli: niente spoiler!) è abbastanza scontata. I personaggi fanno un percorso minimo e non necessariamente positivo, ciò che evolve sono soltanto le circostanze.

Così esposto La moglie del cuoco non è certo un’opera d’arte, starete pensando. Forse.
In un certo senso, infatti, il film funziona. Fa ridere senza essere volgare, cosa rarissima, e i personaggi sono presentati molto bene, con una tecnica naturalistica che ci permette di capirne la psicologia senza forzature o didascalie. Ad un primo sguardo sembra che la regista Le Ny non voglia farci riflettere su qualcosa in particolare ma divertirci con non troppa leggerezza e certamente in serenità. Eppure è proprio in questa “non troppa leggerezza” che si può trovare il valore del film. Come la stessa Carole, la pellicola esprime un’inconsistenza consapevole, cioè dice da sé di essere frivola e un po’ inutile, un insieme di buone maniere e frasi di circostanza, il tutto buttato giù con calcolata innocenza, eppure sui protagonisti aleggia una lieve malinconia. Non sappiamo se questa sfuggente amarezza sia stata pensata e calcolata però traspare da ogni fotogramma. Dalle mani della Le Ny la vita ne esce ironica, pirandellianamente umoristica. La regista non vuole darci un giudizio di valore sull’adulterio, la disoccupazione, il matrimonio o altro, ma dirci con molto realismo e semplicità che il proprio posto nel mondo è fondamentale per ciascuno.
Peccato che alla fine sembra che i suoi personaggi si accontentino semplicemente dei loro desideri, sicuramente di quelli più banali.
Sorprende trovare questa serietà in una semplice commedia romantica come La moglie del cuoco, un film senza troppe pretese ma certamente migliore della maggior parte delle pellicole nostrane.

Touché France!

Dal 16 ottobre nei cinema.