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domenica 16 febbraio 2014

"Storia d'inverno": è possibile amare tanto qualcuno da impedirgli di morire?

di Emanuela Andreocci

Non è detto che essere uno sceneggiatore di talento porti automaticamente a saper stare fisicamente dietro la macchina da presa, e questo crediamo sia quello che ha imparato a proprie spese (e anche a spese degli spettatori) Akira Goldsman, premio Oscar per A Beautiful Mind. 
Il suo esordio alla regia con Storia d'inverno, infatti, non è propriamente di quelli che rimarranno impressi nella storia del cinema contemporaneo, nonostante ci siano molteplici fattori che farebbero pensare il contrario: un cast ricco e variegato, una storia d'amore che trascende il tempo e lo spazio, una dolce favola magica in cui credere e qualche accorgimento tecnico iniziale (un'attraente fotografia in seppia, una dissolvenza interessante). Tutti questi elementi, che presi singolarmente sembrerebbero essere positivi, nel film dello sceneggiatore newyorkese si combinano in un mix mal riuscito che non riesce ad esprimersi appieno e a suscitare l'emozione necessaria.
Il vero problema della pellicola, infatti, si insinua nella storia: una romantica favola d'amore (ci sono stelle e angeli, così per lo meno la voce over ad inizio film riferisce al pubblico) dovrebbe far sognare e commuovere, lo spettatore dovrebbe emozionarsi insieme ai protagonisti, ma questo non succede. 
Peter Lake (Colin Farrell) è un moderno Mosè: lasciato dai genitori in balia della corrente per permettergli di salvarsi, incontra l'amore della sua vita nel 1916 quando, ormai grande e abile ladro, si imbatte nelle bella Beverly Penn (Brown Findlay) durante l'ennesima rapina. Il problema non è la professione di lui, ma la malattia di lei: ha una forma mortale di tubercolosi che non le permetterà di vivere ancora a lungo. La trama, che si sviluppa mettendo troppa carne al fuoco, non si esaurisce con questi elementi: dobbiamo infatti aggiungere il rancore dell demone Pearle Soames (l'ex mentore di Peter interpretato da Russell Crowe) che risponde al suo "capo" Lucifero (Will Smith), un cavallo custode che si palesa nel momento del bisogno e che fa volare il protagonista grazie alle sue ali di luce e l'incontro ai giorni nostri (2014) con una giovane madre (Jennifer Connelly) e la sua figlioletta malata. Il personaggio di Farrell è destinato a compiere il suo miracolo con una ragazza dai capelli rossi e questo lo porterà ad esprimere il suo amore in un percorso di oltre 100 anni, dove i ricordi pian piano affioreranno come un puzzle da costruire lentamente. Il male si può vincere, ma per farlo serve tanto bene.
Pollice in su per il protagonista maschile (capelli a parte, è convincente nel suo essere un romantico convinto, un appassionato della vita dall'occhio languido intriso d'amore), per il cavallo e per la colonna sonora; pollice decisamente verso, invece, per gli altri due big della pellicola: Will Smith nei panni di Lucifero rasenta la parodia e, effettivamente, fa ridere lo spettatore alla sua prima apparizione (ma in un film del genere la risata non è l'emozione richiesta), mentre Russell Crowe, ben più presente, offre le sue sembianze ad un personaggio assolutamente mal concepito, un demone senza arte nè parte che risulta ridicolo. Pollice verso anche per il tema portante della luce che collega le persone al di là del tempo e dello spazio: buona l'idea, ma si perde nel suo essere sostenuta da alcune immagini evocative particolari e da una una voce off che ricorda allo spettatore, con le dovute differenze, la serie televisiva Touch (di certo non una delle migliori degli ultimi tempi).
Peccato: l'amore che travalica persone, tempi e spazi è un must che non dovrebbe mai deludere. 

2 commenti:

  1. Troppo miele, e troppo poco fiele, a quanto pare... Io ho il brutto vizio di etichettare i film dopo aver visto il trailer, ma stranamente è un po' di tempo che ci prendo quasi sempre... :-)

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    1. In una favola romantica il troppo miele ci sta, ma qui non si avverte neanche quello, forse non era di ottima qualità...!

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