Al termine della proiezione in sala Darsena qualcuno
ha gridato "Sionista!", eppure Bethlehem, l'opera prima dell'israeliano Yuval Adler, come lui stesso ha avuto modo di confermare durante l'incontro
con il pubblico, racconta semplicemente la realtà del suo popolo e di
quello palestinese attraverso i diversi punti di vista dei personaggi
maschili. Sanfur è un giovane combattuto tra quelle che sono le sue
origini (il fratello Ibrahim è leader del movimento palestinese Al Aqsa)
e i suoi affetti e doveri (fa da informatore a Razi, agente dei servizi
segreti israeliani che lo considera come un figlio). La realtà è già
difficile di per sé e nel conflitto arabo-israeliano non c'è posto per i
doppiogiochisti, per chi, seppur in buona fede, cerca di far contente
entrambe le fazioni. Per ogni scelta c'è una conseguenza da pagare e
Sanfur dovrà fare i conti con la propria coscienza e l'ambiente che lo
circonda. Il suo sguardo è carico di emozioni contrastanti: rabbia,
rancore, desiderio di riscatto e di dimostrare il proprio valore. Non
c'è paura, mai. É alla ricerca del suo posto in un mondo in cui nessuno
ha ragione e nessuno ha torto, in cui è sempre lecito uccidere. Sanfur è
solo uno fra tanti: quanti come lui si trovano coinvolti in conflitti
che non li riguardano direttamente e sono costretti a prendere decisioni
difficili che determineranno la loro intera esistenza?
Non si danno giudizi, non si cerca un colpevole: si racconta solo quel
che è. Non c'è neanche bisogno di espedienti particolari o scelte
tecniche ricercate: la narrazione seguita dal regista é lineare e
discretamente esaustiva, sebbene forse avrebbe potuto trattare
determinati punti cardine in maniera più approfondita, in modo da
delinere ancor meglio i caratteri dei personaggi e i loro legami. Non
tutto, infatti, si capisce perfettamente, ma non ce n'è bisogno: le
dinamiche e i moventi sono chiari e valgono per tutti. Ció che è
evidente è che siamo difronte ad una triste realtà dove non ci sono
vincitori, ma solo vinti.
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